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Nel 1843 furono soppressi formalmente i diritti privativi e angarici, ultime vestigia del feudalesimo, ma in mancanza di una redistribuzione delle terre, ciò si tradusse in onerosissimi contratti per i contadini. Inoltre con la soppressione del diritto di uso civico che esercitavano fin dall'epoca romana sulle terre incolte e i boschi, i contadini perdevano una fonte non indifferente di sostentamento. La legge del 1841 ripartiva in affitto questi fondi tra coloro che li avevano usati, ma in realtà ne entrarono in possesso agrari e borghesi e i contadini dovettero disfarsene non potendo pagare i canoni.

In generate sparirono i patrimoni terrieri colossali, aumentarono i medi proprietari ma si estese il latifondo nel suo complesso e la struttura agraria rimase intatta. Sul piano commerciale la politica borbonica era improntata al protezionismo, in difesa delle manifatture interne che mantenevano un carattere artigianale e non erano stimolate ad un aumento della produttività e a un rovesciamento dei rapporti economici dominanti.

Solo l'industria tessile della seta e del cotone a Messina e Catania faceva eccezione. Inoltre una vasta disoccupazione manteneva una politica di bassi salari. E’ su questo sfondo sociale che esplose, violenta e radicale, la rivoluzione il 12-I-1848. Guidati da Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa, i palermitani cacciarono i Borboni e instaurarono un governo provvisorio che adottò, ritoccandola, la costituzione del 1812. A Napoli, Ferdinando II concesse la costituzione l’11 febbraio. Sostenuta inizialmente dall'aristocrazia e dalla borghesia, la rivoluzione si approfondì di giorno in giorno.

Busto di Rosolino PiloI contadini occupavano le terre, assaltavano il macinato, bruciavano i diritti di proprietà: l'apparato dello stato scomparve in poche settimane. I comitati rivoluzionari locali esercitavano il potere e armavano squadre popolari. In questa situazione il governo provvisorio guidato da Ruggero Settimio rifiutò un compromesso costituzionale con Ferdinando II, come stava invece avvenendo negli altri stati italiani con i rispettivi sovrani, proclamo l'indipendenza e assegno la reggenza ad Alberto Amedeo, figlio di Carlo Alberto, prospettando la formazione di una federazione di stati italiani. Allo stesso tempo costituì una guardia nazionale composta esclusivamente da proprietari, commercianti, baroni e borghesi per riportare l'ordine in Sicilia. Quando Messina cadde bombardata dai Borboni nel settembre del 1848, dopo una eroica resistenza e Palermo fu ripresa il 15-V-1849 dopo un lungo assedio, i membri del governo passarono armi e bagagli alla monarchia borbonica.

L'importanza di questi avvenimenti risiedeva nella nuova alleanza conservatrice che univa i ceti dirigenti e determinerà anche i successivi esiti dell’unita nazionale. Tornato in Sicilia, Crispi vi diffuse l'idea di Mazzini e Garibaldi di cominciare l’unificazione dall’isola, favori la costituzione di nuclei armati per una guerriglia, stimolata dall'odio profondo che il regime borbonico, ormai di stampo poliziesco, provocava in tutti gli strati sociali. Gli esuli conservatori invece cominciarono una trattativa con Cavour ritenendo prematura un'azione militare.

All’inizio del 1860 scoppiarono frequenti rivolte che sboccarono nell'insurrezione a Palermo il 4 aprile guidata da Francesco Riso. Una prolungata guerriglia tenne in scacco l’esercito borbonico. Garibaldi sbarcò l’11 maggio a Marsala e si proclamò dittatore in nome del re del Piemonte, abolì la tassa sul macinato (reintrodotta nel 1848), promise la terra ai contadini che l'avessero sostenuto e nazionalizzò le terre della chiesa che, messe in vendita, furono in realtà acquistate dai latifondisti. Il 15 maggio Garibaldi liberò Palermo insorta e formò un governo provvisorio presieduto da Crispi; il 20 maggio i Borboni furono sconfitti a Milazzo.

Incontro fra Mazzini e GaribaldiGaribaldi però non tenne fede alle promesse rivolte ai contadini che occupavano le terre al grido di «Viva l'Italia» e Nino Bixio a Bronte effettuò una delle più violente repressioni. Di fronte al pericolo sociale gli agrari sostennero l'annessione al Piemonte, ratificata con il plebiscito del 5 novembre. Le istituzioni garibaldine furono sciolte assieme alle istituzioni autonome dell'isola. La Sicilia venne governata direttamente dal Piemonte che introdusse lo statuto albertino e le istituzioni sabaude, e fu anche stabilita la coscrizione obbligatoria da cui la Sicilia è stata quasi sempre esente. Sul piano nazionale l'unità fu caratterizzata dall’alleanza tra la borghesia del Nord e i proprietari terrieri siciliani attorno alle istituzioni piemontesi; la Sicilia doveva essenzialmente finanziare l'accumulazione di capitale al Nord lasciando intatta la struttura agraria dell'isola: il peso delle tasse aumentò di un terzo, la bilancia commerciale non fu più attiva e nel 1868 venne reintrodotta l'odiata tassa sul macinato (poi abolita nel 1880).

Fiorì il brigantaggio come forma di esasperazione e protesta mentre si affermava una opposizione radicale e autonomista. Dal canto loro gli agrari ricorrevano alla mafia per riscuotere le loro imposizioni sui contadini. La mafia si consolidò come strumento di conservazione dei privilegi feudali e di mantenimento della pace sociale nelle campagne, al servizio di tutta la nuova classe dirigente di proprietari terrieri, imprenditori, gabelotti locali. Il generale Govone attivò questi interessi comuni, assumendo nel 1863 i pieni poteri, instaurando i tribunali militari e fucilando sul posto per spezzare l‘opposizione. Anche Crispi si convertì alla monarchia nel 1865, mentre le tensioni del dopo unità sboccarono in una nuova insurrezione a Palermo nel 1866, domata da Cadorna. Dall'inchiesta Jacini del 1886 traspariva il quadro desolante della Sicilia. La produttività ristagnava per la scelta di un'agricoltura a basso costo e basso rendimento, il numero dei proprietari diminuiva, i viticoltori più intraprendenti erano danneggiati dalla fillossera.

continua >>>

 
 

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